«Ho iniziato nel 1991 nei reparti dell’ospedale in veste di ausiliario, poi ho seguito i corsi di formazione interna e sono diventato un Operatore socio-sanitario. In sala operatoria, chiacchiero molto con i pazienti, faccio la battuta anche più ridicola del mondo e cerco di non farli sentire in ospedale. Provo a metterli a loro agio, scaricando la tensione».

Vito Palandra

Dietro ogni sigla c’è un nome e dietro questo nome si nascondono mille storie. Come quella di Vito Palandra, OSS di Humanitas Gradenigo, ospedale per il quale lavora da trent’anni. OSS è la sigla che identifica l’Operatore socio-sanitario, figura professionale istituita nel 2001 per definire chi si occupa di assistenza di base nell’area sanitaria e nell’area sociale. «Ho iniziato nel 1991 nei reparti dell’ospedale in veste di ausiliario e svolgendo i lavori legati a quella mansione: distribuzione delle vivande, rifacimento dei letti, pulizie – racconta Vito –. Poi ho seguito i corsi di formazione interna e sono diventato un OSS, acquisendo nuovi compiti e responsabilità».

Vito Palandra è, in particolare, un OSS di sala operatoria, vale a dire uno dei punti nevralgici di un ospedale. «Va preparata la sera prima e allestita la mattina presto – spiega -, sistemando il letto operatorio e tutti gli attrezzi che possono essere utili per le tipologie di intervento in programma, affiancando lo strumentista e l’infermiere presente in sala. Durante l’intervento, l’OSS segue fino alla fine le esigenze di medico, infermiere e strumentista, poi aspetta il risveglio del paziente assieme all’infermiere prima di provvedere alla pulizia di tutta la sala: pavimento, letto, lampade scialitiche. Tutto quello che si vede deve essere perfettamente pulito. Dopodiché si parte con un altro intervento e, finito il programma operatorio della giornata, si comincia a lavorare al giorno dopo, concordando scadenze e materiali con gli OSS delle altre sale e con i coordinatori infermieristici».

Sembrerebbe un lavoro meccanico, ma è tutt’altro: «OSS e infermiere sono le due figure che in sala hanno il contatto maggiore con i pazienti – rivela Vito -. Con i pazienti, io chiacchiero molto, faccio la battuta anche più ridicola del mondo e cerco di non farli sentire in ospedale. Provo a metterli a loro agio, scaricando la tensione. In genere ci riesco bene, in questo sono un cabarettista e tutti lo sanno». Ma se è vero che quella tra Vito Palandra e il Gradenigo è una storia lunga e solida, è altrettanto vero che le premesse non erano state le più incoraggianti: «Sulle prime non ero così convinto di andare avanti – rivela -. L’ospedale in sé non mi piaceva molto, anzi lo trovavo un luogo di sofferenza. Ma poi impari, diventa il tuo lavoro e ti scopri motivato per stare con il paziente: impari ad apprezzarlo e ad andargli incontro. È una palestra che ti serve anche nella vita. Ecco, avere un contatto con la sofferenza delle persone ti permette di avere un contatto diverso con gli altri».

Scoperta dell’ospedale, ma anche scoperta della sala operatoria. «Avevo fatto il mio primo anno mezzo di lavoro girando tutti i reparti del Gradenigo, dal primo all’ultimo – racconta Vito -. Fino al giorno in cui Suor Candida, capo del personale, mi disse: “Lunedì cominci in sala operatoria”. Io rimasi un po’ perplesso perché, sono onesto, prima di entrare in ospedale non mi fermavo neanche agli incidenti stradali per il fastidio che mi dava la vista del sangue. Suor Candida mi disse anche che se non me la fossi sentita sarei potuto rientrare nei reparti. Ma sì, mi dissi alla fine, proviamo anche questa: è l’ultima rimasta. Sono passati 28 anni e mezzo e sono ancora qui. Diciamo che ho brillantemente superato il mio problema ematochimico di partenza».

«Nei miei trent’anni di Gradenigo ho vissuto l’evoluzione dell’ospedale, da quando era piccolo a quando è cresciuto con l’ala nuova, i reparti rifatti, tantissimo personale in più e un radicale cambio di gestione e di abitudini», prosegue Vito. E aggiunge: «Negli anni ho fatto diversi corsi interni riservati a chi lavora in ospedale e ne sono contento perché mi sono migliorato studiando, imparando e stando accanto alle persone più esperte del posto. Di tutte loro e delle loro competenze ho sempre cercato di fare tesoro». Insegnamenti preziosi e da difendere: «Se l’ospedale deve essere un luogo pulito, la sala operatoria deve essere un luogo perfetto – continua -. Un paziente entra in sala perché ha un problema e non deve uscirne con due né trovarne uno nuovo. Tutto il nostro lavoro è fatto per il paziente e non dobbiamo mai dimenticarlo perché in sala stiamo tutti dalla stessa parte».

56 anni compiuti ad agosto, Vito Palandra è nonno di Stella («Ha 4 anni e guai a chi me la tocca – ride –. Di fronte ai nipoti, anche i figli passano in secondo piano») ed è una delle memorie storiche dell’ospedale: «Quando ho iniziato c’erano le “mie” suore: carine, fantastiche e… impestate. C’erano già alcuni medici come Martino, Manfredi, Filippa e Gallino ancora oggi in attività – racconta –. Ferrero e Vasario sono stati i miei primi primari in sala operatoria e mi va di citare anche De Paolis, Bossotti, Bona e Randone, persone e professionisti meravigliosi con i quali ho avuto un grande rapporto. Abito vicino al Gradenigo e, nel corso degli anni, sono stati e sono ancora in tanti a chiedermi notizie dell’ospedale e del suo personale. È un ritorno piacevole perché vuol dire che abbiamo lasciato un buon ricordo. A volte in sala arrivano i biscotti o le caramelle dei pazienti. È un piccolo gesto molto gratificante, noi siamo qui per loro e speriamo che all’occorrenza ci ritorni tutto sotto forma di medici, infermieri e OSS altrettanto bravi e professionali».

VITO PALANDRA, operatore socio-sanitario