«Quando la prevenzione diventa cura, il rapporto con il tuo medico si trasforma: in un giovedì sera di ottobre, ho capito che la persona che avevo davanti avrebbe cambiato la mia vita».
È un normale giovedì sera di ottobre: alle ore 18, Massimo si reca in Humanitas Gradenigo per una visita di prevenzione dermatologica, un controllo dei nei. Non se ne era mai occupato prima, aveva sempre convissuto tranquillamente con la cartina geografica dipinta sulla sua pelle senza alcuna preoccupazione; con serenità, dunque, Massimo si toglie la camicia. Di fronte a lui, la dottoressa Alessandra Farnetti, scrupolosa discepola del professor Santoro, sbarra gli occhi: “Ma voi arrivate sempre tutti a quest’ora?”. Una domanda che apre una storia di cura lunga 11 anni.
«Mi è bastato un momento per capire che la persona che avevo davanti avrebbe cambiato la mia vita», racconta Massimo. La diagnosi di melanoma, piovuta così all’improvviso, lo travolge: è attitudine comune dell’essere umano quella di sentirsi distante dall’idea della malattia come la Terra dal Sole, fino a quando non capita “proprio a te” e allora sembra che la vita non abbia più punti di riferimento. C’è chi piange, chi si incupisce, chi prega: Massimo si affida alla capacità umana di adattarsi al cambiamento, un movimento che parte dall’interno di ognuno di noi e che progressivamente porta ad uno stato di convivenza con la malattia e di consapevolezza dell’importanza della vita e della salute.
Massimo oggi è fuori dalla malattia e ancora incontra ogni sei mesi la dottoressa Farnetti per follow up e prevenzione costante: tutti considerano Massimo guarito da quando è stato sottoposto all’intervento chirurgico di dermo-oncologia, che ha strappato via quell’ospite sgradito. Massimo, invece, sente che il suo percorso di guarigione è iniziato molto prima: la sua cura sono state le persone. Da subito, la “sua” dottoressa è diventata il suo angelo custode, perché gli ha salvato la vita certo, ma anche perché da quel primo giovedì sera ha custodito le sue paure, i suoi momenti più bui, le sue reazioni più drammatiche e quelle di gioia.
«Io continuo ad essere convinto che l’occhio e l’esperienza dell’uomo vadano oltre alle capacità di qualsiasi macchina. Ancora oggi, ad ogni visita di controllo, nel bene o nel male io sono tranquillo solo quando la dottoressa mi dice “Questo neo non mi piace tanto: lo toglierei”. Una macchina non sarebbe in grado di dire questo, un essere umano sì», sono le parole consapevoli di Massimo.
E la vita sembra dargli ragione, quando ancora oggi tra le corsie dell’ospedale incontra quelle due o tre persone che erano con lui in sala operatoria, che magari ha visto per pochi minuti, e tutte le volte si salutano, si guardano negli occhi, si riconoscono ancora nonostante la mascherina e si scambiano un sorriso, due chiacchiere, un gesto di assenso. Perché alla malattia, in fondo, non si è mai preparati psicologicamente, ma il cambiamento è più facile se qualcuno ti tende la mano.
MASSIMO, paziente