«Per gli infermieri, quella dei vaccini è stata un’avventura straordinaria. Non bisogna fare l’errore di pensarlo come un atto tecnico che inizia e finisce con l’inoculazione di un liquido. È invece il risultato di un gioco di squadra, dove tante figure professionali fanno sentire tutti in sicurezza»
Un infermiere è come un diamante. Trasparente e tenace. Lo è per sempre e non smette mai. Anche se ha cominciato tanti anni prima, quando la medicina e l’assistenza erano molto diverse da quelle attuali. Anche se ha passato moltissimi anni in corsia, a prendersi cura dei pazienti e a organizzare il lavoro dei colleghi, due azioni che spesso sono un’unica cosa. Anche se sarebbe arrivato il momento di riposarsi un po’ e invece arriva all’improvviso una nuova chiamata alle armi, sotto forma di vaccino anti Covid-19.
Aldo Montanaro e Gabriella Manavella sono due tra i tanti infermieri che hanno risposto “presente” all’appello rivolto loro un anno fa dalle Direzioni sanitarie delle strutture Humanitas di Torino. Tra i tanti, ma non come tanti. Aldo è andato in pensione all’inizio del 2020, quando era il responsabile dei Servizi assistenziali sanitari di Humanitas Torino. Aveva cominciato al San Luigi Gonzaga di Orbassano: infermiere generico, professionale e infine caposala. Poi tutor della Scuola infermieri e segretario del relativo Collegio (si chiamava così, oggi esiste invece l’Ordine professionale), dirigente infermieristico in strutture private e convenzionate torinesi prima dell’approdo in Humanitas nel 2001 attraverso la porta delle cliniche Cellini e Fornaca. Gabriella ha lasciato il lavoro dopo ben 43 anni di attività: i primi otto alla Cardiochirurgia delle Molinette (in Rianimazione come infermiera e perfusionista in sala operatoria), gli altri tra le cliniche Cellini e Fornaca, vivendo nella prima molte specialità chirurgiche in qualità di coordinatrice («In particolare la Cardiochirurgia del professor Parenzan e del professor Dor: uno arrivava da Bergamo nei fine settimana, l’altro una volta al mese in aereo dalla Francia», ricorda) e nella seconda, sempre da coordinatrice infermieristica, diversi altri reparti («Ho fatto molte esperienze: il reparto al secondo piano del Padiglione B, le sale operatorie, la Day surgery, i reparti al primo piano dei Padiglioni A e B, quello al piano terra del B», precisa).
Ed è stata proprio Gabriella a occuparsi dei primi vaccini anti-Covid che Humanitas ha riservato ai dipendenti delle tre strutture torinesi, nel gennaio 2021: «Ero andata in pensione in pieno lockdown – racconta -. Uno stop traumatico perché oltre ad abbandonare una compagnia di persone che andava oltre il lavoro c’era l’aggravante di dover rimanere chiusi in casa. I primi due o tre mesi sono più o meno andati senza troppi problemi, poi la situazione si è fatta sempre più pesante e quando in autunno s’è cominciato a parlare di vaccini ho subito detto ad Aldo che mi sarei resa disponibile. È accaduto con Humanitas a inizio anno, io e i miei colleghi (Remus Lovin, Monica La Salandra e Giada Baglio) abbiamo vaccinato dipendenti e collaboratori di Cellini, Fornaca e Gradenigo: un’esperienza che mi ha permesso di ritornare nell’ambiente del lavoro e di rivedere tutte le persone con le quali avevo lavorato negli anni. In quei giorni mi sono sentita di nuovo utile», aggiunge.
Con i vaccini Aldo ha invece cominciato ad aprile: «Nei miei oltre 45 anni di attività lavorativa avevo sempre vissuto con passione il fatto di essere il responsabile di una famiglia/comunità professionale (infermieri, operatori socio-sanitari, fisioterapisti, tecnici e altro) e di questo mi ero sempre sentito privilegiato e grato. Ma negli ultimi anni mi erano mancati i pazienti e l’assistenza alla persona, tanto che cercavo di comportarmi con il personale con la stessa attenzione che si dedica ai pazienti – spiega -. Quando facevo l’infermiere in prima linea avevo grandissime soddisfazioni e puntando molto sulla relazione raccoglievo ritorni straordinari. Quindi la scelta di tornare in pista per i vaccini è stata naturale, anche perché l’aveva già fatto Gabriella e perché mi sentivo un po’ in colpa per essere andato in pensione proprio un attimo prima che arrivasse il Covid-19. Forse, se l’avessi saputo, pur essendo molto provato, mi sarei fermato al lavoro un po’ di più. Anche se chi mi ha sostituito ha fatto meglio di quanto avrei fatto io, mi è dispiaciuto tanto non esserci nel momento più critico. Quindi il mio contributo ai vaccini ha avuto un duplice motivo: fornire un infermiere in più e sentirsi egoisticamente meno in colpa». Un vissuto comune con quello di Gabriella: «Ho saputo a gennaio 2020 che di lì a poco sarei stata a casa, ma il Covid era ancora una cosa lontana che mai più immaginavo potesse prendere quella piega – dice -. Ad averlo saputo, sarei andata avanti ancora un po’ per spirito di servizio, vista la situazione e il bisogno che c’era. Ho lavorato tanto in area critica e non escludo che mi sarei proposta per lavorare in Terapia intensiva».
Ma un infermiere è per sempre ed è capace di imparare anche dopo tanto tempo. «Quella dei vaccini è stata un’avventura straordinaria – riconosce Aldo -. Vista con gli occhi di chi negli ultimi trent’anni aveva fatto questo mestiere da dirigente occupandosi dei processi e degli esiti attesi sulla persona assistita, mi ha permesso di apprezzare ancora di più quanto l’infermiere sia strategico al momento del contatto con la persona. Non bisogna fare l’errore di pensare che la vaccinazione sia un atto tecnico che inizia e finisce con l’inoculazione di un liquido. È invece il risultato di un gioco di squadra, dove tante figure professionali (chi fornisce la prima informazione, lo steward all’esterno del Centro vaccinale, il medico e la sua prima valutazione) fanno sentire in sicurezza su una prestazione di fronte alla quale tutti arrivano con paura, anche quelli che non lo danno a vedere. Questo è un aspetto che va sempre tenuto in conto e mai sottovalutato. Anche se vaccinavamo oltre cento persone a testa, quel minuto di attenzione particolare era fondamentale: come facevamo accomodare il paziente, vestendolo, prendendolo per mano, dandogli quelle informazioni che lo facevano andare via con apprezzamento e sollievo. Si è trattato di una sensazione che avevo smarrito e che ho ritrovato, quella dell’enorme potere e privilegio che ti concede la persona assistita mettendosi anima e corpo nelle tue mani. A differenza del ricovero, con la vaccinazione hai un minuto per giocarti l’apprezzamento o l’insoddisfazione della persona rispetto alla struttura e al team. Puoi rovinare tutto con una parola, un atteggiamento. Mi sono tanto divertito, mi sono lasciato andare, ho detto cose, scherzato, anche con le persone che erano in difficoltà e dalle quali ho avuto subito risposte positive. Alla mia età è stato bellissimo e non pensavo di ritrovare questa sensazione. Ecco perché è importante che ognuno faccia al meglio il proprio pezzo di strada: se non guardi in faccia le persone quando chiedi l’età o dai il foglio da compilare, stai sbagliando. Se le metti tutte in fila e le buchi facendole aspettare in piedi, stai sbagliando. Noi siamo spesso riusciti a fare tutto nel migliore dei modi ed è stata una sensazione bellissima».
«È quanto richiede la nostra professione – insiste Gabriella -. Assistenza non è solo svolgere determinate tecniche e pratiche per risolvere un problema, c’è anche l’assistenza psicologica e affettiva di quando una persona è ricoverata. Una volta un paziente oncologico grave mi disse: “Gabriella, quando la vedo entrare è come un raggio di sole”. Io quelle parole non le dimenticherò mai. Mi sono sempre messa nei panni di chi era disteso nel letto e prima di uscire da una camera ho sempre pensato: di cosa può aver bisogno questa persona senza che suoni il campanello? Il telecomando? I fazzolettini di carta? Il telefono sarà carico? Chi non si può alzare, dipende in tutto e per tutto e spesso si imbarazza nel dover chiedere aiuto. Con i vaccini, seppur in un contesto diverso, ho rivissuto una piccola parte della mia professione ed è stata una bella esperienza, soprattutto con le persone, perché anche le più calme erano un po’ in apprensione».
«Ci sarebbe da scrivere un libro sugli aneddoti legati al vaccino: “Ma adesso posso andare a messa?”, mi ha chiesto una signora subito dopo averlo fatto», sorride Gabriella. Ad Aldo qualcun altro ha invece chiesto se poteva mangiare la carne e un altro ancora se poteva bere alcolici, mentre un uomo palestrato e tatuato, per farsi distrarre, ha voluto farsi baciare dalla fidanzata al momento del vaccino: «Mi ha chiesto il permesso e ho acconsentito. Le persone hanno sempre bisogno d’aiuto, non bisogna mai dare nulla per scontato». Anche il genere di appartenenza è un aspetto da tenere in considerazione, uomo e donna sono molto diversi e quanto osservato durante le vaccinazioni lo conferma, assicurano Gabriella e Aldo: «La donna spesso pone al medico diecimila domande, gli uomini molte di meno. La donna entra nel box vaccinale col braccio scoperto e va a sedersi, l’uomo rimane in piedi col cappotto e la giacca: “Ma devo toglierla?”. La donna è anticipatoria, l’uomo attende istruzioni. Molti uomini sono arrivati il giorno della seconda dose con ancora il cerotto della prima. Dipende sempre dal singolo, ma il genere in qualche modo condiziona».
Gabriella e Aldo sono anche moglie e marito. Si sono sposati il 4 ottobre del 2019 dopo aver lavorato insieme per diversi anni facendo sempre la massima attenzione a separare lavoro e vita privata: «Lei è sempre stata molto brava – dice Aldo -. Maniacale nell’ordine e nel rispetto delle procedure e con una sensibilità speciale verso i bisogni dei pazienti e dei componenti del team di lavoro». «Ancora oggi infermiere che hanno lavorato con me vent’anni fa mi scrivono e mi esprimono la loro stima – conclude Gabriella –. Ho fatto parte di una squadra con un’alchimia speciale. Ho sempre amato molto il mio lavoro, faticando tanto ma raccogliendo grandi soddisfazioni con colleghi e pazienti».
GABRIELLA MANAVELLA e ALDO MONTANARO, infermieri