«Per me la cura è supportare il paziente in tutto e per tutto: è una riabilitazione alla vita, con momenti drammatici e momenti umani, di socialità e divertimento».

Edoardo

 

Ci sono storie di cura lunghissime. Durano molti anni ed è come se non finissero mai. Si portano dietro emozioni, persone e momenti, spesso drammatici, sempre vivi, capaci di riprendere in un attimo tutta la loro forza. La storia di Edoardo è una di queste. Feroce per il suo contenuto, enorme per il patrimonio di sentimenti che si porta dentro.

Edoardo entra al Gradenigo nel 2008 («Ma c’ero già stato nel 2003, per un piccolissimo intervento all’orecchio», dice) e, di fatto, ne esce un pomeriggio d’autunno del 2020, proprio qualche giorno prima della foto e del video che qui ne raccontano la storia. È un paziente prima di Oncologia e poi di Fisiatria: un tumore gli porta via la gamba destra e molti dei legittimi sogni di un ragazzo di 19 anni, la tenacia e la rabbia lo conducono sulla strada di un lungo recupero («Adesso mi vedete seduto, ma io sono in tutto e per tutto abilitato, o meglio riabilitato, a camminare, seppur con l’aiuto di una protesi»). Il follow up che fa seguito a un tumore come il suo chiude il cerchio dopo dodici anni: ragazzo sei guarito, non hai più bisogno di venire in ospedale.

Raccontata così, la storia rivela l’inizio e la conclusione, ma non dice nulla di cosa c’è stato in mezzo e di cosa sia stato ricominciare attraverso il lavoro quotidiano con i fisioterapisti del reparto di Recupero e rieducazione funzionale. Un cammino faticosissimo, fatto sempre dell’attimo del singolo esercizio, di un piccolo passo alla volta, a testa bassa, senza mai guardare la linea del traguardo finale. Edoardo ha lavorato con la determinazione dei suoi anni e ha tenuto faticosamente a bada la rabbia imposta della situazione. «Nell’arco del ricovero non sono stato molto collaborativo. Ho rischiato più di una volta di essere cacciato dall’ospedale, scappavo dal reparto, venivo chiamato dall’interfono o al cellulare, ma rientravo in reparto solo quando lo decidevo io. Ho però ricevuto molta comprensione, sia per la tipologia della mia malattia sia per la mia età, avevo 19 anni ed ero poco più che un bambino». Un anno di ricovero in Oncologia e poi il passaggio in Fisiatria: «Se devo ripensare ai momenti vissuti in ospedale, ci sono ovviamente stati grandissimi periodi di sofferenza fisica, morale e psicologica, ma anche tantissimi momenti di ribellione e di divertimento, sia con i pazienti sia con il personale sanitario in tutte le sue figure professionali». La velocità dell’infusione manomessa («Doveva durare 72 ore, ma dopo meno di 36 era finita: l’infermiera non capiva come fosse possibile»), il voltaggio della Tens girato al massimo fino a ustionarsi la schiena («Elisa, la mia fisioterapista, mi chiedeva cosa fosse successo e io: boh, non ne ho idea…»), tante piccole azioni di disturbo fatte però con un senso («Avevo una mia etica e ogni volta mi presentavo dal medico responsabile del reparto»).

«Negli altri pazienti e negli operatori sanitari ho trovato amici, persone con le quali ancora oggi mi sento. Dal punto di vista umano è stata una bella esperienza». Sorride a denti stretti, gira la carrozzina rosso fiammante, derapa per i corridoi e, finalmente, sgomma fuori dall’ospedale.

 

EDOARDO, paziente