«Per me la cura è accogliere l’altra persona considerandola come tale, rispettandone valori e peculiarità, accompagnandola nel percorso di malattia e di guarigione. Il mestiere di infermiere richiede passione e grande forza di volontà: la voglia di curare gli altri non ti viene così, o ce l’hai o non te la puoi costruire»
Chissà a cosa stava pensando la giovane Chiara, testa china sul suo banco del PalaAlpitour, la mattina di martedì 22 maggio 2018 mentre rispondeva alle domande del concorso pubblico per diventare infermiera dell’ospedale Humanitas Gradenigo. «Per me era una porta verso il futuro, ci speravo tanto», ricorda oggi. Certo, quel giorno non poteva sapere che il concorso lo avrebbe vinto piazzandosi tra i primi dieci classificati dei quasi duemila partecipanti, che poco meno di un anno dopo sarebbe nata la sua Irene e che, soprattutto, all’inizio del 2020 sarebbe arrivato quel virus capace di cambiare le vite di tutti e di stravolgere quelle di chi lavora in ospedale, medici e infermieri in primis.
Chiara Chiumiento ha 30 anni ed è un’infermiera di Humanitas Gradenigo. «Che cos’è per me la cura? È accogliere l’altra persona considerandola come tale, rispettandone valori e peculiarità, accompagnandola nel percorso di malattia e di guarigione», afferma. Il noviziato professionale e l’emergenza pandemica l’hanno già portata a lavorare in diversi reparti dell’ospedale: Ortopedia, Medicina interna, Chirurgia, Urologia e Oncologia («Non saprei dire quale sia il “mio”, mi sono piaciuti tutti»). Ha evitato i reparti Covid-19 della prima ondata («La mia paura maggiore era quella di non poter uscire dall’ospedale: come avrei allattato mia figlia?»), ma ha risposto presente alla chiamata dell’autunno 2020: «Mi sono presa un giorno per decidere, ho detto sì e sono rimasta al quarto piano fino a quando non abbiamo dimesso l’ultimo paziente». Sei mesi tutt’altro che semplici: «All’inizio, vista la precedente esperienza dei miei colleghi, temevo di non farcela a livello fisico. Ci sono riuscita grazie al sostegno della mia coordinatrice, Manuela Costamagna e di tutto il gruppo. So che l’hanno detto in molti, ma io lo voglio ripetere: la multidisciplinarietà delle diverse figure sanitarie è stata la chiave vincente. Nel reparto Covid-19 ti trovavi in un vortice costante e, a volte, avevi la sensazione di non poterne uscire, ma alla fine in qualche modo ce la facevi proprio grazie a chi divideva il lavoro con te». Un rito tutto consumato all’interno dell’ospedale e difficile da trasferire all’esterno: «La nostra era davvero la solitudine dei numeri primi», dice.
Dopo questa esperienza, Chiara si sente cresciuta: «Non mi spaventa più niente, anche nella gestione del paziente. Sento di avere una forza interiore maggiore, nata nella drammaticità di quei mesi». Lei che il giorno della prova orale del concorso aveva colpito la coordinatrice del Pronto soccorso, Cecilia Deiana, con una risposta su “culpa in eligendo e culpa in vigilando” dell’infermiere, oggi spiega con queste parole cos’è il suo mestiere: «Richiede passione e grande forza di volontà. La voglia di curare gli altri non ti viene così, o ce l’hai o non te la puoi costruire. Nel mio caso, so che quello dell’infermiera è l’unico mestiere possibile».
CHIARA CHIUMIENTO, infermiera